Sto scrivendo di guerra.

Sia ben chiaro, non mi è mai interessata la guerra. Non per lo meno nell'accezione vasta in cui la intendiamo, in quell'accezione spersonalizzata a cui ci piace tanto aggrapparci. Non ne sono capace, di interessarmene. Il motivo principale è che non ne capisco nulla. Una buona regola per scrivere qualcosa dicono, è averla vissuta o almeno conoscerla sufficientemente bene da sapere di cosa si stia parlando. Partendo da questo presupposto, io non potrei parlare di guerra. 

In questa porzione di mondo la mia generazione non è titolata a parlare di guerra. Ci smarriamo noi, davanti alla guerra. 

Poiché sappiamo con assoluta certezza che essa non è fatta minimamente come la descrivono nei servizi televisivi eppure, anche sapendocelo, non sapremmo come dipingerla altrimenti. Per questo pur parlando di guerra non parlerò di guerra. Parlerò degli effetti della guerra. Di cosa si trascina di essa nelle persone dopo che la guerra propriamente detta, circoscritta nei limiti arbitrari nei quali ci rassicura confinarla, finisce. Parlerò di guerra parlando di persone, non di guerra. Questo perché ho compreso, riflettendoci per bene nel tempo, che come tipo di esperienza è più vicina a me, alla mia generazione e al mio tempo. Dopotutto, una guerra non deve avere dimensioni globali per essere una guerra. Una guerra è qualsiasi cosa che includa la violenza come forma di prevaricazione sul prossimo. Imporsi, è dichiarare guerra. Anche solo provarci, è dichiarare guerra. Perciò in fin dei conti possiamo considerare guerra la violenza a cui assistiamo ogni giorno, le discriminazioni che vengono portate avanti nel quotidiano. La guerra che affronta la nostra generazione non è globale ma capillare. Una guerra nella quale si viene cercati con il lanternino e prelevati casa per casa, per essere gettati in pasto a nemici troppo vicini su linee del fronte dai confini troppo rarefatti. La guerra, la nostra guerra, non ha il sapore della guerra. Per questo alla fine ci frega. La ragazza che è stata sfregiata con l'acido dal compagno geloso ha preso parte a una guerra senza neanche accorgersene. La transessuale che è stata aggredita da un branco di ragazzini è andata in guerra senza neanche sapere come sia successo. Il bambino abbandonato dalla propria madre è stato vittima di una dichiarazione di guerra mai cercata, mai voluta. 

Sono atti di guerra piccoli per chi li guarda, immensi per chi li vive. Atti di guerra quotidiani. 

In base a cosa potremmo valutare noi quale guerra sia degna di essere chiamata tale, quale troppo grande, quale troppo piccola per rientrare in tale definizione? Non pretendo di avere io una risposta ma sono convinta che una guerra in corso non si valuti dagli armamenti schierati ma dalle ferite che ognuno si porta appresso, ferite non sempre visibili. Perciò forse, se ci mettessi abbastanza impegno nell'accarezzare una certa sensibilità che, lo ammetto tranquillamente, abitualmente sono troppo pigra per sfiorare anche accidentalmente, forse potrei parlare di guerra in fin dei conti. O per lo meno degli effetti della stessa sulle persone che la affrontano, che la superano sia vincendo o perdendo. Ammesso la superino che non è detto, alcune guerre si trascinano semplicemente per sempre. Se non riesco a parlare di guerre globali posso sempre parlare delle piccole guerre quotidiane: minuscole, appena percettibili ma terribili lo stesso. Certo non potrò farlo da sola. Pur avendone combattute innumerevoli di guerre la mia esperienza non basta e anche bastasse, focalizzarmi soltanto sulle mie battaglie, sarebbe di un egocentrismo talmente svilente da vanificare lo sforzo di scriverne. Perciò comincerò a cercarne in giro, tra la gente normale, tra parenti e conoscenti, tra amici e estranei, di soldati involontari. E tu, quali guerre hai combattuto nella tua esistenza?

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