La pena di morte e l'educazione del cittadino

La notizia dei sette condannati alla pena capitale in Arkansas ha risollevato una questione annosa: la legittimità della pena di morte. Una questione che mi ha portato a sviluppare una mia opinione in merito nel corso degli anni. Non guarderò l'argomento da un punto di visto legislativo, né tanto meno da un punto di vista meramente etico, lo trovo superfluo. Proverò a scrivere ciò che ne penso da un punto di vista pratico o per meglio dire, formativo.

Sì, perché lo stato, tramite le sua leggi, educa il cittadino. Il complesso di regole scritte che un governo mette a disposizione della popolazione, forma la visione che questa ha di corretto, scorretto, giusto o sbagliato. Senza accorgercene neanche, tutti noi abbiamo assimilato le regole sociali del gruppo umano in cui siamo cresciuti e queste hanno influenzato la nostra visione del mondo e il nostro giudizio sullo stesso.

Se l'ambiente in cui cresci condanna il furto, tu crescerai ritenendo il furto sbagliato. Se l'ambiente in cui cresci condanna l'omicidio, tu crescerai ritenendo l'omicidio sbagliato.

La pena di morte sotto questo aspetto è un'arma a doppio taglio, poiché nel condannare l'omicidio lo applica come misura punitiva. Esclusivamente punitiva. Non c'è possibilità di correzione e redenzione nella pena di morte.

Questo tipo di atteggiamento plasma nella popolazione una mentalità che avvalla due pericolose convinzioni:

La prima è che per alcune persone non esiste una seconda possibilità. Il governo che applica la pena di morte educa i cittadini a considerare alcuni individui come semplicemente irrecuperabili. Cause perse indegne di riflettere su quanto fatto, comprendere l'errore, cambiare, migliorare. Cittadini di serie B impossibilitati ad avere una seconda occasione e a porre rimedio ai propri errori. Tutti commettiamo errori, tutti dobbiamo avere la possibilità di comprenderli e fare ammenda per essi, se vogliamo effettivamente costruire una società migliore. Se eradicassimo semplicemente l'errore, non ci sarebbe terreno fertile per la maturazione e la crescita.

La seconda è che la vita, in casi eccezionali e sotto certe circostanze, può essere tolta. Se un governo che non applica la pena di morte educa il cittadino alla sacralità imprescindibile della vita, un governo che la applica insegna al cittadino che, in caso l'individuo sia sufficientemente detestabile o deviato, egli possa essere ucciso. Essendo che il concetto stesso di “deviato” e “detestabile” è molto soggettivo, ecco che i confini tra chi può essere ucciso e chi no divengono molto incerti e rarefatti. Un cittadino di un paese che applica la pena di morte ha imparato che, in casi estremi, la vita può essere tolta e dunque si farà meno scrupoli ad uccidere in caso si trovasse nelle circostanze adatte a compiere tale gesto. Dopotutto, ciò che gli è stato insegnato è che si può uccidere. Non sempre, soltanto in alcune circostanze, ma uccidere è una risposta legittima.

Dopotutto, stando alle statistiche, esse sono unanimi nel dichiarare che la pena di morte non è affatto un deterrente efficace per contenere il numero di omicidi. La pena di morte non funziona, non ha mai funzionato. Forse perché insegna alla popolazione che ne è spettatrice che uccidere è lecito, convincendola che togliere una vita, in fin dei conti, non sia poi questa gran cosa. Una convinzione pericolosa.



Per un approfondimento accurato dell'argomento, potete consultare questo file pdf davvero esaustivo: http://www.acatitalia.it/files/no-alla-morte-di-stato.pdf

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