LILITH - La soppressione emotiva

Qualche giorno fa parlavo con una bambina. Mi raccontava di una sua compagna di classe alla quale era particolarmente legata e che a breve si sarebbe trasferita all'estero. Questa bambina si sentiva triste per la partenza della sua amica, abbastanza triste da dire “quasi che mi viene da piangere”. Ma non ha pianto, è tornata invece a giocare sullo scivolo con maggiore foga di prima. Allora le ho posto una domanda semplice: come si sente la tua amica all'idea di partire. La sua risposta è stata: ha detto che non le importa niente, di doversene andare. Allora le ho fatto notare: e se si sentisse triste anche lei e non lo volesse dare a vedere? Ti è mai capitato di essere triste e non volere che gli altri lo sapessero e perciò fare finta di nulla? La bambina ha annuito: sì, secondo me è così. E' triste ma non me lo vuole dire. La bambina in questione ha otto anni. L'amichetta che se ne andrà ne ha otto a sua volta. Mia figlia è di un anno più piccola eppure applica lo stesso modus operandi, nel rapportarsi alle emozioni negative: se è triste si distrae giocando, magari guardando qualche video divertente in internet, se è preoccupata si sforza di fare più casino del solito urlando, correndo e agitandosi come se ne andasse della sua vita. Come se il rumore assordante che essa stessa produce potesse mettere a tacere la tristezza che prova. Mai e dico mai, neanche una volta, neanche sotto mia specifica indagine, ha risposto: sono triste. Non lo ha mai ammesso. Se mi azzardo a farle vedere un film che anche solo per due minuti dei suoi centoquaranta risulta commovente, allora il film non le è piaciuto. Potrebbe essere anche bellissimo ma per lei è brutto “perché mi ha fatto quasi piangere”. Come se piangere fosse una cosa sbagliata, un errore da non commettere.

Stiamo crescendo una generazione incapace di fare introspezione.

Non è un fenomeno recentissimo a dire il vero, anche la mia di generazione si trovò ad affrontare questo problema e il fatto che su di alcuni di noi la mentalità dominante non abbia avuto l'effetto sperato è stato più che altro l'esito di inclinazione personale. Ci troviamo di fronte ad una realtà nella quale siamo bombardati da stimoli forzosamente positivi. Fare festa, divertirsi con gli amici, passare del tempo felice fino all'ultimo, fino all'eccesso, fino al punto in cui diventa una caricatura esasperata e angosciante di felicità. Quel tipo di felicità della quale devi necessariamente postare foto sui social in cui ti diverti con gli altri, tra aperitivi, pub, discoteca, spiaggia, perché altrimenti nessuno ci crederebbe, che sei felice. Molto probabilmente non ci crederesti neanche tu. Sono sicura che ogni tanto ti ritrovi a sfogliare quella galleria di foto giusto per ricordarti quanto sei felice, nel momento in cui un qualsiasi imprevisto fa vacillare tale tua certezza.

Stiamo crescendo una generazione che non si sente in diritto di piangere perché piangere è da deboli. Stiamo crescendo una generazione che non si sente in diritto di essere triste perché essere tristi è da sfigati.

La domanda da porsi è questa: come speriamo di istituire una società fondata sull'ascolto, il confronto e l'accettazione degli altri se per prima cosa non siamo disposti ad ascoltare e accettare noi stessi? No, noi non ci accettiamo poiché accettarsi implica accettare qualsiasi sfaccettatura di noi stessi. Anche la nostra parte triste. Anche quella che prova rammarico per quella scelta sbagliata fatta in passato. Anche quella che si vergogna di un certo errore commesso. Anche quella a cui viene da piangere. Anche quella che magari ci riesce anche, a piangere. Stare bene con sé stessi, stare davvero bene con sé stessi, è qualcosa che viene da una profonda conoscenza del proprio essere in tutto e per tutto. Come nelle persone attorno a noi non possiamo selezionare ciò che ci piace e mettere a tacere il resto, così non possiamo farlo con noi stessi per quanto sovente ci illudiamo di avere tale potere. Perché colui che mette a tacere parte della sua emotività mette a tacere parte della sua coscienza. Nel momento in cui pretendiamo di selezionare quale emozione provare, pretendiamo anche di selezionare le emozioni verso le quali essere empatici con gli altri. Allora rifiuteremo la vicinanza con l'amico triste poiché temeremo l'idea di poter risuonare della sua tristezza. Invece di affiancarlo, parlare con lui, provare a comprendere un'emozione che comunque non siamo oramai più abituati a gestire e affrontare, preferiremo rifuggirlo e lasciarlo solo.

Preferiremo isolarlo e bollarlo come sfigato. La verità è che tale reazione è una conseguenza della nostra stessa paura di sentirci coinvolti.

Ci troviamo davanti a una generazione che non sa dire “sono triste”. Anche lo sapesse dire non saprebbe spiegare perché. Anche lo sapesse spiegare, difficilmente troverebbe qualcuno disposto a capirlo. Anche trovasse qualcuno disposto a capirlo, è oramai praticamente impossibile che quel qualcuno sia in grado di aiutarlo a trovare una soluzione.

Anneghiamo la nostra esistenza nella fretta, nel rumore, nel divertimento perché non siamo più in grado di ascoltare. Quindi di comprendere. Quindi di risolvere. Non siamo più in grado di accettare e di accettarci. Onestamente, questa alienazione da sé stessi che ci ostiniamo a pubblicizzare come “cool” e “figa” mi spaventa da morire. La trovavo agghiacciante quando avevo sette anni, la trovo altrettanto agghiacciante ora, da adulta fatta e finita.

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